Marco di Capua

I ferri del mestiere

"Poi passammo accanto a un delizioso mucchio di rifiuti, da cui estrassi una sedia di legno con il sedile rotto, cosparsa di stucco e vernice, e un pezzo di metallo di due centimetri per dieci con cui staccare i grumi di stucco più grossi. Un lavoro sporco. Jeff disse: 'Sarà questa la mia vita se divento uno scrittore?'". (Jonathan Franzen, Materiale di recupero).

Ciò che una sera, già buia, vidi inquadrato nella finestra al quarto piano del palazzo di fronte non era un dipinto, che mi era sembrato perfino bello, una specie di grande natura morta con un attaccapanni e una porta, ma erano proprio un attaccapanni e una porta, e l'accordo di verde acceso e di arancione che li legava, e che nel quadro funzionavano – avrebbero funzionato - così bene, si tramortirono e svilirono all'istante, perché, in realtà, quello non era altro che l'arredamento di un ufficio. Nel suo piccolo, credete a me, si trattò di un avvenimento, che ha anche un nome, si chiama: fine dell'illusione. Tutta la pittura, da Zeusi in poi se ci pensi, conta sulla nostra disponibilità a farci illudere, prospera e si declina sulle infinite possibilità di un meraviglioso inganno. Altrimenti, Claudio Bissattini continuerebbe pure ad andarsene per discariche e sfasciacarrozze, ma lo farebbe per raccogliere oggetti e ferri di ogni tipo, addirittura per riempirne intere stanze e garage, non per dipingerli. Tra un artista che con tutta quella roba crei un'installazione (ne avrete visti, e di sicuro ne vedrete ancora un sacco, garantito) e uno, come Bissattini, che ne fa un quadro, essenzialmente c'è di mezzo quella parola lì, molto dolce in fondo, persuasiva: illusione.

Flash back. Prima CB dipingeva rami con foglie e frutti, lo ha fatto per 15 anni, e così io lo intercettai, e ne scrissi come di un meticoloso giardiniere visionario, il custode di un Tropico o di un Eden mediterraneo perfettamente stilizzati, araldici nella loro rifrazione immobile. Alida Maria Sessa più tardi scrisse che quel CB gli pareva il solo occidentale preda di una sakura permanente, la festa per la fioritura dei ciliegi. "Il Giappone si ferma...", e si ferma anche CB. Bene, ora che ci ripenso mi torna in mente la scena con cui inizia non so quale film dedicato a Antonio Lopez Garcia, dove appare il sommo pittore mentre, in sequenza

  1. osserva il suo albero di limoni
  2. gli gira intorno
  3. ne lega qualche ramo con delle cordicelle
  4. ne fissa ogni particolare a lungo
  5. segna qui una foglia, là un frutto, col pennello.

Tanto che quella sembrerebbe proprio una performance, ci si potrebbe anche accontentare volendo, e invece ti accorgi che si tratta solo di un buon inizio, perché il grande Antonio poi fa una cosa che a qualche curator sembrerà strana, imprevedibile: comincia a dipingere un quadro. Accidenti, ora mi ricordo anche il titolo del video: El sol del membrillo. Una meraviglia. I gesti che un pittore fa prima di dipingere sono sempre funzionali, ma anche un po' rituali, perimetrano un'azione che – tra poco - avrà un che di magico. So che CB perlustra discariche industriali, cerca e guarda finché una scena non lo colpisce, allora ne fotografa segmenti, strutture compositive, dettagli. E fin qui ci siamo, il curator di prima lo seguirebbe senza difficoltà. Poi però quello si smarrisce, perché CB a studio metabolizza i propri ricordi, le sensazioni avute, osserva le foto, e comincia a riportarne sulla tela solo alcune parti, montandole con altre, mischiando le carte. Per di più, a questo punto l'oggetto, disgregandosi, è sparito. E' successo che si è reincarnato. In immagine. Questo transito, un passaggio mica male, magari lo diamo per scontato, perché appartiene a un gesto naturale e millenario, eppure è sempre così azzardato e – se ti riesce, giacché non è mica detto – così nuovo.

Dunque, dove mi trovo adesso? Da un universo vegetale sono passato in uno industriale, questo è sicuro. E' uno spazio metallico e antropofago (mai un essere umano, come dopo un'evacuazione), un habitat alla deriva. Volendo essere più precisi, sto in qualche discarica della periferia romana, con le spalle alla città, perché la città è la scenamadre, e se anche non si vede, preme ai confini dei dipinti e si sente lì intorno, ovunque. Sto nel backstage della metropoli in rovina, rovisto nel cuore di una dismissione generalizzata? Se volete metterla giù così, e battere sulle metafore, può essere pure. Ma io andrei più vicino ancora, scoprendo un'intima fioritura (e due!) di ferri, plastiche, copertoni, segnali stradali, come di un innocuo mondo di giocattoli rottamati. Ho visto i resti di un biliardino? L'ho visto. Cocci & Catorci. Verso quell'abbandono c'è cura, attenzione, una specie di amore freddo – molto formalizzato intendo dire, ottimo pretesto per una complessa questione di stile - per il laterale e l'abbandonato, per il superato dalla vita in corsa, dalla produzione, come se ritrovandosi da soli sulla scena povera romana Bissattini facesse rima totale con Pasolini...

Lo sguardo di CB è insistente, ossessivo, "sta sul pezzo" e sembra immobile, ma, benché apparentemente statico, è narrativo, racconta perfino di tortuosi, solitari percorsi intensamente nostri, imbullonati in qualche zona del nostro cervello, di stagioni perdute, e di mari d'inverno, quando gli stabilimenti inabitati si sciupano e i legni e le latte si scolorano con la salsedine: i colori vintage di Claudio hanno questo fascino, di smalti vissuti, di colori bellissimi e stemperati dal tempo, nel trionfo di un'estetica anticool e in una presa di distanza siderale da ogni tocco e ritocco di immagini al computer. Insomma ecco qui spazi attraversati, come se il grande Luigi Ghirri avesse incluso il pittore CB tra gli amici fotografi dei suoi viaggi in Italia. Voglio dire, questi oggetti raccontano sempre un paesaggio, quartieri, cantieri: lì dentro, in quei grovigli e ammassi e intasi di cose ascoltiamo un mucchio di voci. Spesso appaiono scritte, brand fuori tempo massimo, e sono le parole allegre/tristi dette da oggetti che non servono più a nulla, a loro modo parole in libertà, il residuo, ormai svincolatosi da tutto, di una loro antica funzione.

Ancora sui colori. Credo c'entri l'imprinting generazionale e romano: mi ricordano quelli dei monocromi di Schifano, in un'evidenza e sfrontatezza pop che con CB si articola e aggroviglia architettonicamente. E poi si mette a raccontare...

Ancora sugli oggetti: c'è questa passione per loro, proprio presi e definiti uno per uno, staccati dalla loro origine. Subito dopo, CB esaudisce il desiderio del cerchio, dell'asta, del bidone, del manubrio – faccio per dire, perché il catalogo sarebbe lungo - di assemblarsi e di ammuccchiarsi, rivelando come nel loro oblìo sociale sappiano stare bene insieme, e che possono ricomporre la loro obsolescente bellezza, solennemente. Ciò (anche) perché ci sono state le nature morte affastellate di De Chirico e le caccie metropolitane di Raushenberg tra i rifiuti di Manhattan – la spazzatura, una vera e propria manna per scrittori e artisti americani - e dunque perché nella mente di CB agisce come un retropensiero l'inevitabile ammirazione per una Metafisica degli alambicchi, per un'America dei relitti. Ho detto anche. E mi spiego.

La pittura, diversamente da altre soluzioni artistiche contemporanee, non è mai un non-luogo, avete presente quella definizione no? Non è né un centro commerciale né un aereoporto. Piuttosto, si situa in un punto della creatività visiva attuale dove ancora contano i tramandi, i passaggi di consegna, la raccolta (accuratamente differenziata!) di segnali provenienti dal passato. La pittura nasce dalla pittura, funziona come un sofisticato tessuto connettivo. Quella di CB è prima di tutto un luogo.

Ogni stimolo comunque rientra in un personalissimo lavoro di elaborazione formale e compositiva. Dove alla fine contano anche le cose non dette, anche un'evocazione di incertezze, uno spazio lasciato (al) vuoto. CB non ammazza lo spazio (usiamo questa tosta espressione di Raushenberg), non tutto almeno. Infatti, aggancia sempre qualcosa di esatto in primo piano, e pare che quella concreta solidità gli basti, ma solo apparentemente, perché poi è soprattutto attratto da un che di vago e che si ritrae nell'indistinto, in quel singolare fondo nebbioso dove gli oggetti, le cose, impallidiscono, e diventano ombre. Per eseguire questa così ricercata vaghezza, sostiene CB, si finisce per faticare di più che per le parti visivamente chiare, evidenti. Non appare come un disegno preparatorio, ma come un dopo. Cosa si muove laggiù, tra il farsi compatto e il disfarsi colante delle stesure? Il piacere linguistico di costruire/decostruire l'immagine? Può darsi. Una visione, una possibilità, una specie di aldilà degli oggetti? Chiedi alla ruggine.

Marco Di Capua

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